PICO

La storia di PICO, “Microcomputer minimo per tutte le tasche”
di Paolo Forlani, 2011, trent'anni dopo.

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Foto Paolo Forlani.

Tutta la mia vita è stata attraversata dalla passione per l'elettronica, che è iniziata molto presto: verso gli 8 anni avevo già costruito la prima “radio a galena” . Poco dopo, grazie al fatto che nella città di Ferrara dove vivevo c'era lo studionegozio di un Ingegnere e pioniere della radio, dove si trovavano gli schemi e si potevano acquistare componenti allora rari, ho costruito una radio, sempre in cuffia, ma amplificata da “ben” un transistor.
La passione non si è interrotta mai ed ho passato molto tempo con il saldatore in mano, tanto che quando ho iniziato l'università come aspirante ingegnere elettronico avevo una notevole conoscenza pratica dell'elettronica (quasi solo analogica all'epoca) anche se mi mancava la teoria.
Poi è venuta la curiosità sui microcomputer: erano gli anni in cui, dopo i primi Intel a 4 bit, era uscito l'8080 con ben 8 bit di dati e 16 di indirizzo. Bisogna considerare che all'epoca non c'era Internet: notizie e conoscenze andavano cercate sui libri e sulle riviste. Negli ultimi anni di studio (19721974) ero molto incuriosito dai computer e dei microcomputer in particolare, ma allora non c'era né la facoltà di informatica né il corso di ingegneria informatica. Il massimo che ho potuto fare è stata la scelta di quattro esami di informatica nel piano personale di studi.
Quando sono uscito dall'università, avevo una lode ma avevo avuto modo di “mettere le mani” su ben poche macchine di calcolo. Sapevo scrivere programmi in Fortran (introdotti su schede perforate) e in Assembler per un mini della HP (su nastro perforato). La curiosità sui microcomputer era
ancora tutta da soddisfare.
Poi il primo lavoro a Milano e il primo incarico: progettista di hardware digitale per l'8080! Finalmente avevo accesso a informazioni e conoscenze sui microprocessori, anche se nessun accesso alla tastiera: il software non era compito mio. Tutt'al più potevo mettere le mani e scrivere programmi in Basic su un PDP11, meravigliosa macchina: un mini a 16 bit in cui le prime istruzioni si caricavano a mano in binario con una fila di interruttori, ma poi andava avanti da solo. Era dotato di ben 16k di memoria a nuclei magnetici, non volatile, almeno fino a quando non si perdeva tutto e bisognava ricaricare il sistema operativo.. dal nastro perforato.
Due anni di questo lavoro, poi nel 1978 una nuova occupazione e finalmente l'accesso al sistema di sviluppo Intel, quasi un personal computer ma senza monitor. Ingresso,uscita e memoria erano rappresentati da una telescrivente Teletype con la quale si caricavano il sistema operativo e l'assemblatore, naturalmente memorizzati su nastro perforato. Il caricamento dell'assemblatore richiedeva almeno 45 minuti, durante i quali la telescrivente emetteva un rumore insopportabile, figurarsi i rapporti con i colleghi. La memoria era a semiconduttori, quindi volatile... bastava un niente (ad esempio qualcuno che faceva un corto sulla 220) per perdere tutto e dover ricaricare.
Soddisfatte così le mie brame di conoscenza su hardware e software dell'8080 (e in quegli anni uscivano anche l'8085 e lo Z80), dominato con i miei bit il comportamento spesso bizzoso di schede computerizzate di vario tipo, ho sentito la voglia irrefrenabile di diffondere questa mia cultura, modesta ma non accessibile a tutti.
Da diversi anni scrivevo articoli di elettronica varia su CQ Elettronica, quindi il mezzo di diffusione era garantito. Bisognava però realizzare il computer; i mezzi erano scarsi perché anche allora, come adesso, un ingegnere progettista non era certo un nababbo e a breve sarei anche diventato padre. Avevo però la fortuna di lavorare nell'elettronica, quindi ho potuto costruire il mio kit con materiali di ricupero, schede che la ditta buttava via, campioni che mi lasciavano i rappresentanti di componenti.
Per le poche cose che ho dovuto comprare, a Milano c'era un portentoso negozietto: Franchi in via Padova. Vi si trovava di tutto, e a prezzi abbordabili. Adesso al suo posto, se non sbaglio, c'è un take away sudamericano.

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La tastiera di PICO. Foto Paolo Forlani.

Il PICO doveva essere a portata di tutti e lo scopo era solamente didattico: serviva solo a “dominare i bit” dell'8080, infatti gli unici dispositivi di input/output erano una tastierina di 16 tasti e un display a 7 segmenti di ben 4 cifre, quante bastavano per rappresentare 16 bit in esadecimale, i numeri più grandi che l'8080 poteva gestire.
Di circuito stampato non c'era bisogno, perché lo schema era così semplice da poter essere realizzato con i fili in meno di una giornata; e questo mi sembrava una buona caratteristica, per permettere a chiunque di costruire il “computer” senza vincoli. Sempre per semplicità non c'era nemmeno una scatola, tutto stava su due schedine da 100x160 mm, una per il computer e una per l'alimentatore. L'8080 aveva ancora bisogno di 3 alimentazioni: +5V, +12V e 5V, quindi c'erano tre regolatori lineari con i loro dissipatori.
L'8080 aveva potenza di calcolo oggi ridicola, ma “consumicchiava”, essendo ancora in tecnologia NMOS e non CMOS come i micro contemporanei; quindi i regolatori e il processore stesso scaldavano abbastanza.

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L'alimentatore visto dal lato cablaggio. Foto Paolo Forlani.

Fatto l'hardware, restavano due scogli da superare: come scrivere il software (o meglio firmware) e come distribuirlo ai lettori.
Il primo problema l'ho superato restando un po' di più al lavoro la sera e sfruttando il sistema di sviluppo della ditta. Un sistema di sviluppo allora costava una fortuna e non me lo sarei potuto permettere: non era come adesso, che con un PC da 300 Euro e un PicKit da 30 euro si programma e debugga egregiamente un micro a 32 bit.
Il secondo problema l'ho risolto portando un campione delle due Eprom con i programmi alla ditta AZ Elettronica di Milano, inserzionista di CQ Elettronica, che aveva accesso a un programmatore e poteva fornire ai clienti i duplicati delle Eprom, oltre naturalmente agli altri componenti. La mia natura schiva e il mio desiderio di aiutare gli altri mi hanno impedito di chiedere qualcosa in cambio di questo favore commerciale, ed anche di chiedere se poi ne hanno vendute e quante...
Come si vede anche dagli articoli su CQ, che si sono salvati essendo su carta e non su supporto informatico (che oggi, dopo soli 30 anni, sarebbe illeggibile: riflettiamoci!) i programmi erano due. Per lo studio c'era un monitor e per il divertimento c'era il gioco del “Master Mind”.
Il monitor l'ho rivisto adesso in funzione, e non mi è sembrato ridicolo nemmeno alla luce della tecnica attuale... Era ingegnoso e semplicissimo; permetteva di scrivere e leggere la memoria (quindi di creare un programma), di scrivere e leggere i registri, di avviare il programma e di fermarlo dove si voleva, per andare a “debuggare” ed esaminare i risultati.
Dovendo scrivere più locazioni di seguito, con un apposito tasto si salvava e si incrementava automaticamente l'indirizzo.
Niente male, con 16 tasti, un display di 4 cifre e 736 byte di programma!
Il Master Mind era anch'esso molto semplice, ma divertente. Mi dispiace di avere perso la Eprom che lo conteneva, perché ho un ricordo piacevole delle partitine che giocavo contro il “computer” e forse me ne farei volentieri ancora qualcuna. Ho il listato su carta, quindi non dispero di poterlo fare!
Bisogna dire che la tecnica dell'epoca dava già molto di più e che le scarse funzioni del PICO apparivano anche allora veramente limitate. Ma volete mettere la soddisfazione di avere ottenuto qui piccoli risultati mettendo assieme i bit saldando un filo per volta?

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PICO dal lato cablaggio. Foto Paolo Forlani.

Accendere un moderno PC a 64 bit, che solo per il sistema operativo richiede 2G di memoria e 100M di disco, non dà al confronto nessuna emozione!
L'articolo su PICO è stato pubblicato su CQ Elettronica in quattro puntate, nei numeri 12 del 1980, 1, 2 e 3 del 1981.
Come sia andato l'articolo e quanti siano riusciti a far funzionare il PICO non lo so, perché l'unico feedback era dato dalle lettere dei lettori, che tipicamente scrivevano alla rivista solo in caso di problemi. Ricordo di averne ricevute diverse, e forse cercando potrei trovarle ancora.
Un breve seguito è stato quello del Super Pico. Ho pensato di andare avanti e di dotare il computer di una possibilità di espansione dell'input/output, con un bus amplificato e volevo anche farne, finalmente, il circuito stampato.
All'epoca anche l'attrezzatura di un circuito stampato a doppia faccia era un investimento non trascurabile, quindi ho pensato bene di sollecitare i lettori (CQ Elettronica n.4 del 1981) e di raccogliere le adesioni, prima di fare l'investimento e di ripartirlo tra gli acquirenti (anche qui, nessun guadagno..). Ho pubblicato lo schema su CQ Elettronica n.10 del 1981.
Non so perché, ma di adesioni ne sono arrivate proprio poche. Forse nel frattempo erano stati pubblicati da altre riviste dei computer più prestanti, o forse l'espansione del progetto andava contro la semplicità che ne rappresentava praticamente l'unico pregio. Fatto sta che il Super Pico è rimasto sulla carta, l’esemplare originale del PICO è andato in cantina dove è rimasto indisturbato, superando imperterrito perfino due traslochi.
Poco fa il Sig. Serrantoni mi ha miracolosamente ritrovato e mi ha risvegliato l'interesse per questo oggetto d'antiquariato.. Ho avuto solo un piccolo disappunto, dovuto alla considerazione che, se il PICO è antiquariato informatico, anch'io non sono da meno! Ma poi mi sono consolato, pensando che tutto sommato faccio ancora lo stesso mestiere ma con molta più libertà e riesco ancora a dominare i bit di processori molto, molto più piccoli ma molto, molto più potenti e spesso tengo ancora in mano il saldatore.
Il mio privilegio, come mi ha fatto notare mio figlio (ingegnere pure lui, la passione è contagiosa) è di poter avere un'idea complessa e di poterla brevettare e poi sviluppare in tutti i suoi aspetti, con collaboratori e clienti che l'apprezzano!
In questi giorni, ritrovato e rispolverato il PICO, ho sistemato qualche filo che era indurito dal tempo e rotto (sempre il saldatore in mano..) e sono rimasto deluso vedendo che non funzionava più!
Prima ho pensato che la Eprom avesse perso il programma: infatti i sintomi erano quelli, e le Eprom dell'epoca erano garantite per 10 anni di ritenzione. Poi, non soddisfatto, ho fatto ancora diverse misure con l'oscilloscopio e ho capito che il problema era più semplice: si era rotto un piedino della Eprom, proprio nel punto in cui entra nello zoccolino. Le ripetute inserzioni e disinserzioni e l'indurimento del metallo avevano prodotto una frattura che non era visibile se non estraendo la Eprom. Poco male: ho saldato un nuovo piedino alla Eprom, ho cambiato il contatto a tulipano dello zoccolo (perché il pezzetto di piedino era rimasto dentro e non si poteva estrarre) e il monitor è tornato a funzionare! Se non è questo un restauro di antiquariato...
Adesso il PICO non tornerà in cantina: si è meritato di stare in casa, anzi, mi sa che gli farò pure una scatola, casomai di plexiglas per poterlo mettere sul mobile del soggiorno al posto di qualche brutto soprammobile.

 

Documenti in archivio sul PICO

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